Perchè è importante saper parlare di malattia

Il bello del giornalismo è che ogni parola pesa tantissimo. Se le parole pesano significa che possono fare la differenza, di conseguenza utilizzarle male causa danni, apparentemente invisibili ma di fatto enormi.

In ogni tipo di giornalismo, per qualsiasi articolo, il giornalista ha il dovere etico e deontologico di fare attenzione a ciò che dice e al modo in cui lo dice. La libertà di espressione è sacra e va da sè che se nessuna regola si infrange l’articolo va bene, si pubblica e si fa leggere. Ma quello che oggi mi spinge a scrivere non è relativo alle regole deontologiche.

Quando ci si trova a scrivere di morte, malattia, suicidio e temi a questi collegati non è mai semplice trovare le parole giuste. Il rischio di scivolare è semplice quanto quello di essere banali e di ricalcare stereotipi dannosi. Andando nel concreto, basta prendere spunto dalla vicenda di Gianluca Vialli. Ex calciatore, figura iconica e unica del panorama calcistico italiano, Vialli è morto a 58 anni per un tumore al pancreas. Diagnosticatogli cinque anni fa, il cancro era stato asportato in parte con un’operazione. Ma poi è tornato e ha preso il sopravvento, strappandogli la vita prima del dovuto.

Della sua malattia e della sua morte se ne è parlato ovunque, giustamente. Tutti hanno avuto voglia di celebrare l’uomo e di spiegare come siano andate le cose, quanto lui abbia amato la vita vivendola a fondo. Impossibile però non notare il modo, troppo spesso maldestro, in cui si sia scelto di parlare di tutto questo.

Repubblica, il secondo quotidiano più venduto in Italia, ha mandato in edicola una prima pagina con un titolo così: “Addio a Gianluca Vialli. Dopo cinque anni di lotta il campione si è arreso”. Parto da qui perchè è il titolo che mi ha colpito di più, sebbene di esempi ce ne siano numerosi. La resa, come la lotta, sono le immagini più comuni legate alla malattia ma, soprattutto, al rapporto del malato con il suo ospite inatteso. La storia di Vialli quanto il titolo di Repubblica offrono, in questo senso, l’occasione giusta per riflettere su quanto tutto questo sia sbagliato.

Che la malattia sia un nemico da sconfiggere è cosa certa quando si pensa al lavoro che la scienza fa su di essa. Medici e scienziati hanno il dovere di cercare un modo per far fronte a qualcosa di così forte e complicato. Ma la narrazione della malattia e il suo rapporto con il malato è tutt’altra cosa e ho idea che il giornalismo, e in generale l’opinione pubblica, non se ne sia accorto. L’assist perfetto per parlarne nel modo giusto lo ha dato proprio Vialli. In più di un’intervista ha detto di non aver mai pensato al cancro come un nemico da combattere. Ribadendo che quella con un tumore così sarebbe una battaglia persa in partenza, Vialli ne ha parlato come “un compagno di viaggio”. Un viaggiatore con cui indubbiamente non è piacevole condividere un pezzo di strada, ma che c’è e non può essere ignorato.

Gianluca Vialli, a margine della sua vita, è diventato esempio e punto di riferimento per chiunque debba affrontare una sfida complicata ma anche per chi alla malattia ci pensa poco. Il tutto senza mai definirsi lottatore, senza mai nascondere paura, dubbi, debolezza e commozione. La sua narrazione della malattia è diventata emblema di come probabilmente questa va affrontata e raccontata e quello che più sorprende è che in pochi, tra i giornalisti soprattutto, abbiano pensato di prendere spunto da lui.

La malattia, infatti, non può e non deve essere una battaglia per il singolo e forse è da qui che si dovrebbe ripartire per parlarne, quando si racconta di Vialli e sempre. Parlare di un malato come di un lottatore significa allontanarsi dal suo essere umano, quindi giustamente anche debole e fragile. Quel che di più abbiamo apprezzato di Gianluca Vialli in questi anni è che ha scelto di raccontare la sua malattia e il suo modo di conviverci, ha scelto di vivere raccontando le sue paure, emozionandosi spesso, abbracciando le sue passioni il più possibile, consapevole che tutto sarebbe potuto durare meno del previsto.

Chi affronta una malattia si trova improvvisamente di fronte alla cruda realtà dell’essere di passaggio. Sapere che qualcosa di più forte prende il sopravvento non può e non deve renderci agguerriti e raccontare la malattia nel modo giusto significa dare la forza a chiunque di abbracciare la propria debolezza e affrontare a testa alta quel che verrà. Va bene non avere armi, va bene piangere e sentirsi a terra, va bene soprattutto scegliere di vivere e basta. Da qui, probabilmente, dovrebbe partire ogni racconto, ogni articolo che vuole dire di una cosa complicata: basterebbe partire dalla semplicità.

I giornalisti e chiunque decida di prendere carta e penna per dire qualcosa dovrebbero sempre, indiscutibilmente, ricordare che non esiste il modo giusto di affrontare qualcosa di difficile. Esiste l’affrontarlo nel modo migliore per sè stessi e se a qualcosa le parole dette e scritte possono servire è a ricordare a tutti che è possibile. Ammettere una paura e portare avanti la propria vita senza sentirsi un guerriero non significa essere perdenti, morire per una malattia non significa arrendersi.

Quel che possiamo sperare è che l’informazione prenda spunto dai non lottatori, che ritorni a dare i nomi giusti alle cose giuste, che riparta dal suo compito abbassando armi dannose, che ci aiuti ad affrontare la vita nella sua durezza e nel suo essere complicata, ripartendo dalla verità. Il grazie, oggi, va a Gianluca Vialli che, se fosse ancora qui, ci avrebbe ricordato che i falli in campo non servono e i gol si fanno solo e sempre grazie alla passione.

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