L’industria della cultura

Un esempio vero di come si mangia facendo arte

I sipari stanno riaprendo, le poltrone rosse non sono più sole. Sembra di tornare a vivere mentre le storie riprendono forma su palchi rimasti vuoti per troppo tempo. Nell’ultimo anno i teatri sono rimasti chiusi, artisti e lavoratori dello spettacolo hanno potuto lavorare poco quanto niente e, per fortuna, se ne è parlato molto.
Alcune storie a questo legate però sono diverse, stranamente positive anche se meno conosciute. In piena pandemia è accaduto, infatti, che alcuni teatri decidessero di chiamare gli artisti che non avevano potuto fare spettacolo a causa delle chiusure e di pagare loro le repliche non andate in scena. La storia è vera, accade in Danimarca e i protagonisti sono artisti italiani.


“Uno dei teatri in cui ci saremmo esibiti ha deciso di pagarci comunque lo spettacolo, come se fosse andato in scena. Per aiutare chi non lavora da un anno e chissà quando riprenderà. Un gesto incredibile, che commuove. Un gesto che dà speranza, forza e che ci sprona a lottare per riuscire a superare questo momento terribile. Perché in Danimarca noi ci andremo. E a quel signore, a modo nostro, restituiremo tutto.”

Questo scriveva la Rimbamband il 15 gennaio 2021. Dopo quasi un anno di non lavoro.


La Rimbamband è una band, formata da cinque artisti pugliesi, noti per essere capaci di coniare, con estro e genio, comicità e musica. Sui social fanno divertire tantissimo, dal vivo ancora di più. Loro sono tra gli artisti che anche in piena pandemia hanno continuato a regalarci contenuti, mentre non lavoravano e aspettavano di poter fissare nuove date per gli spettacoli cancellati. Hanno ricevuto un regalo dalla Danimarca, paese in cui sono arrivati partecipando a uno showcase.


Me ne ha parlato Raffaello Tullo, componente della band, raccontandomi anche di un modo di fare e progettare teatro che la Danimarca ha scelto per non annoiare mai i suoi spettatori. “Gli showcase danesi”– spiega “sono eventi di circa tre giorni a cui partecipano tutti i direttori dei teatri. Ogni artista, complesso o compagnia si candida per partecipare, ha quindi poi in quell’occasione 5 minuti a disposizione per esibirsi. Noi abbiamo deciso di investire in questa esperienza e presentare lì il nostro ultimo progetto, alla fine dello showcase molti direttori di teatro avevano chiesto di noi all’info point. Il risultato è stato che ben 12 teatri volevano il nostro spettacolo “O sole mio”, un nostro omaggio all’italianità all’estero che a quanto pare è piaciuto molto. Abbiamo programmato quindi un tour di due settimane, poi è scoppiata la pandemia e nulla è mai cominciato.”


Per gli artisti vedere svanire tutti i progetti, pensati e costruiti in chi sa quanto tempo, è stato un terribile colpo. Si tratta senza dubbio di una questione economica, rimanere senza lavoro è capitato a molti nell’ultimo anno e mezzo e farvi fronte è complesso. Non poter lavorare, però, significa anche perdere stimoli, veder svanire progetti, sentire che gli obiettivi non ci sono più e dover pensare a come rimanere a galla.
“Il primo teatro che ci ha contattati”– ha detto Raffaello – “ci ha detto che ci avrebbero pagato il cachet per intero; il secondo che ci avrebbe dato la metà del compenso previsto. La prima cosa che abbiamo pensato è stata che quella era una enorme lezione di civiltà.”
I teatri danesi che hanno scelto di pagare alla Rimbamband gli spettacoli non fatti diventano, quindi, simbolo di un’iniezione di fiducia oggi indispensabile più che mai.

Pagare uno spettacolo non andato in scena vuol dire far arrivare agli artisti un messaggio ben preciso, nel frattempo scegliere di credere nell’arte nonostante tutto, anche quando non paga. Ha fatto bene Raffaello a parlare di lezione di civilità? Io direi di si, il perché è presto detto. La Danimarca, come mi ha spiegato proprio l’artista, è un paese che può permettersi di pagare gli artisti anche in tempo di pandemia perché ha scelto di fare della cultura una vera e propria industria. Sfatare il mito della cultura che non fa mangiare, pensando al modello danese, si trasforma immediatamente da retorica della speranza in realtà.


La chiacchierata con la Rimbamband mi ha permesso di comprendere a fondo come sia possibile, in Danimarca ma probabilmente anche in altri paesi europei, che un teatro possa pagare degli spettacoli non fatti e che, soprattutto, degli artisti possano parlare così bene del posto in cui lavorano. Partendo dall’esperienza dello showcase, infatti, Raffaello mi ha spiegato che “prima dello showcase tu presenti il tuo progetto all’Istituto di Cultura della Danimarca e loro verificano che quello possa risultare di interesse culturale. Se passi ti danno un bollino che consente ai direttori di teatro, lì presenti per osservare, di pagare metà dello spettacolo, il resto lo paga lo stato. Ci sono molti fondi statali per le attività culturali.”
Lo stato, in buona sostanza, investe moltissimo nell’arte e nello spettacolo. Il sistema diventa inevitabilmente meritocratico, chi gestisce un teatro sceglie tra “prodotti” garantiti e le decisioni sono poco veicolate da ragioni politiche o economiche. Si prende quel che è bello e lo si porta in scena, quel che vale viene scelto e su quello si investe. La cultura è industria, azienda come tutte le altre; gli spettacoli o le opere sono prodotti. Paradossalmente, sebbene i meccanismi aziendali e industriali troppo spesso sono associati a meccanicità e freddezza nell’approccio al lavoro, questa volta gli restituiscono dignità. Utilizzare questi termini non toglie fascino a ciò che vediamo poi in scena, ci emozionerà incredibilmente lo stesso. Parlare di industria della cultura si può, probabilmente si deve.

La cultura smette quindi di essere solo passatempo, mantiene intatta la sua bellezza e diventa cibo per il corpo oltre che per la mente. Raggiunge, con la scelta di farla divenire motore dell’economia di un paese, la perfezione di ciò che è e di quello che meritiamo di avere, noi e gli artisti che, incredibile a dirsi, fanno di talento e passione un lavoro (durissimo).
E perché in Italia i teatri non pagano gli spettacoli non fatti? Perché qui non si pagano ancora anche quelli andati in scena? Quando l’ho chiesto a Raffaello mi ha colpito la sua voglia di raccontarmi della Danimarca senza sterile polemica per il nostro paese. “Qui accade di dover rincorrere teatri che non pagano, ma di base non esistono fondi statali cui poter davvero attingere. In Italia” – mi spiega “ solo i teatri stabili hanno fondi statali, gli altri devono cavarsela da soli.”


Accanto ai bauli in piazza, alle sacrosante e sempre importanti proteste, allora possiamo mettere un buon esempio. Una dimostrazione, semplice ma concreta, che con la cultura si può mangiare, che un metodo per abbandonare i soliti meccanismi e dar spazio al merito c’è, che di cultura si può, anzi si deve, vivere.
I progetti per il futuro della Rimbamband? “Abbiamo ora solo una certezza: vogliamo tornare in quei teatri e restituire quello che ci hanno dato.”

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